Opinioni Caeranesi

Mauro Marconato

Saõ Tomè, l’isola che… c’è. 21/31 gennaio 2019

Quando l’amico Gino, il nostro mentore e fondatore del gruppo Silver Slow Food, mi propose un viaggio a São Tomè, rimasi sorpreso e sconcertato.  Malgrado i miei lunghi ed antichi studi umanistici non sapevo esattamente dove fosse questo luogo, anche se il nome mi fece subito pensare a qualcosa di brasiliano o comunque di portoghese, ed allora andai in rete, oggi si usa così, e trovai che la nostra metà sarebbe stata un’isola del golfo di Guinea, una ex colonia del Portogallo, resasi indipendente nel 1975 ed ora repubblica presidenziale, costituita da un piccolo arcipelago, comprendente anche l’isola di Principe ed altre minori. Mi chiesi subito il perchè di questa idea, cosa avesse di particolare questa isola, ma siccome i viaggi di questo nostro gruppo di anziani “esploratori”, numerosi in passato, erano stati tutti interessanti, essendo nostra vocazione ed abitudine quella di visitare, nelle nostre mete, le comunità del cibo locali, i piccoli villaggi, gli agricoltori, i laboratori dove si salvaguardano produzioni a rischio di estinzione, decisi insieme a mia moglie di aderire a questa nuova avventura, malgrado i costi piuttosto alti.  Speravo, come sempre, di poter conoscere la biodiversità di quei territori, quelle popolazioni autentiche, vere, di entrare in contatto con i loro problemi, la loro reale vita quotidiana, ancora immune dai diffusi artifici del turismo ormai planetario, con la loro originalità e purezza di cuore, il sorriso loro e soprattutto quello dei loro bambini, che a noi europei, pieni di tutto ma spesso insoddisfatti, sembra stridere con le condizioni essenziali o addirittura di povertà di questi luoghi altri, diversi. In genere siamo abituati a misurarli con il nostro metro di giudizio occidentale, influenzato dal confronto con le nostre case, con il nostro benessere, le nostre ricchezze, i nostri costumi, i nostri servizi, le nostre tecnologie ecc. e magari ci sbagliamo di grosso. Trattandosi poi di Africa, di un piccolo paese quasi pre-turistico, immaginavo di vivere almeno una parvenza di quelle emozioni che sicuramente hanno provato i tanti esploratori veri che hanno incontrato questi mondi lontani e “misteriosi” nei secoli scorsi. Il gruppo di aderenti, alla fine, non fu molto numeroso ed invece della solita ventina ci ritrovammo in tredici coraggiosi, a sperimentare un viaggio un po’ insolito ed anche stimolante.  Era prevista anche una sosta e visita a Lisbona e pensai che, male che andasse, la città lusitana avrebbe comunque riscattato e ammortizzato viaggio e costi relativi.  Il primo problema da affrontare fu quello del rischio di febbre gialla e di malaria, ma alla fine io e mia moglie non facemmo alcuna vaccinazione o profilassi antimalarica, per l’età avanzata e per un fiducioso affidarsi alla divina provvvidenza. In compenso mia moglie si forni di una serie collaudata di disinfettanti specifici, da spruzzare nelle camere e sulla nostra pelle scoperta, e addirittura di un prodotto da irrorare su tutti gli indumenti, prima della partenza. Partimmo così come ad una guerra contro le zanzare, pronti a respirare per 10 giorni dei fetidi miasmi miracolosi. Il gruppo era poco numeroso, ma ci conoscevamo quasi tutti e l’ affiatamento era abbastanza assicurato, pur con tutti i limiti costituiti dai diversi caratteri e dalle diverse abitudini di vita. Partiti da Venezia a sera inoltrata, abbiamo pernottato a Lisbona e il giorno dopo siamo partiti per São Tomè con scalo tecnico ad Accra. L’impatto con l’isola è stato caldo e nuvoloso, con un alto indice di umidità che ci ha accompagnato per tutto il viaggio. La cittadina di São Tomè, capitale dell’omonima isola, mi è sembrata subito un residuo coloniale abbastanza malandato, con edifici in parte diroccati o comunque di scarsa rilevanza architettonica, eccetto qualche costruzione di epoca portoghese ed il palazzo presidenziale. Alcune costruzioni conservano ancora le tracce colorate di rosa, di azzurro o di giallo, risalenti alla dominazione portoghese, iniziata nel 1640 con il loro sbarco ad Anambo e terminata nel 1975, dopo cinque secoli, con l’agognata e lottata indipendenza dal Portogallo. L’isola all’epoca dello sbarco portoghese era completamente disabitata ed anche la gran parte delle coltivazioni di frutta e di spezie furono introdotte dai nuovi colonizzatori. Qualche chiesa testimonia la netta prevalenza della religione cattolica e tra queste risulta interessante la cattedrale, dove si trovano alcune decorazioni in ceramica di pregevolissima fattura. Solo qualche recente complesso turistico ed il lungomare molto bello, in cui stona tuttavia lo stato tristissimo di una vecchia e lunga balaustra, ridotta a pezzi ed orfana da troppo tempo di cura e manutenzione, riscatta almeno in parte il declino decennale di questa capitale dell’arcipelago. Interessanti anche la vecchia fortezza di São Sebastião, con il faro che domina il porto e che ospita un pregevole museo etnologico e storico, e la zona costiera e periferica abitata da pescatori coraggiosi, che sfidano l’oceano con le loro semplici barche, ricavate da enormi tronchi di legno.  Oltre che pescatori, gli abitanti dell’isola, i santomensi, sono anche agricoltori e sono in parte eredi degli antichi schiavi che, prelevati dall’Africa, venivano raccolti nell’isola prima di essere trasferiti in America, e in parte immigrati dalle ex colonie portoghesi di Angola e Mozambico e da Capoverde. Pochi sono i portoghesi rimasti, che controllano tuttavia molta parte dell’economia locale, insieme a qualche altro europeo, tra cui spicca Claudio Corallo, con la sua famosissima cioccolateria, che perpetua la tradizione dell’isola, che è stata, soprattutto in passato, una grande produttrice mondiale di cacao ed anche di caffè. Non mancano volontari, anche italiani, che lavorano per delle ONG nella formazione e nella lavorazione di prodotti locali, in particolare farine e frutta.  Un terzo circa di São Tomè è un grande parco naturale, privo di strade carreggiabili e che non abbiamo visitato, paradiso per il trekking e per vacanze avventurose ed itineranti. Tutta l’isola è comunque una grande ed unica foresta, che copre il 90% del territorio, di una richezza straordinaria, che ospita piantagioni ed alberi di ogni tipo, che sfidano altissimi il cielo, alcuni di dimensioni enormi, come i baobab che abbiamo visto giganteggiare nell’unica e marginale zona a savana situata ad ovest della capitale. A São Tomè non mancano le montagne, la più alta delle quali supera i 2000 metri, ed anche dei grandi monoliti di basalto che spiccano solitari nel verde panorama di palme di ogni tipo e di alberi secolari. L’isola è di origine vulcanica, per cui l’oceano che la circonda lambisce una costa rocciosa e sassosa, nerastra, soprattutto sul lato occidentale, mentre dall’altra parte, verso l’Africa, non mancano le spiagge sabbiose, di un colore bruno arancione, che costruisce variopinte sfumature colorate e contrasti forti con il nero delle rocce, gli azzurri molteplici del mare ed il bianco fluente e schiumoso delle onde, che frangono a riva. Piacevolissima l’acqua dell’oceano, tiepida al punto giusto, ma con una forza notevole, che ti scaraventa verso la spiaggia con le sue onde impetuose e poi ti trascina indietro, risucchiato dalla forza della sua risacca. La ricchezza di fiori coloratissimi, che abbiamo ammirato nell’ orto botanico di Bon Sucesso, e le piante di cacao e caffè, di vaniglia e di banane, di mango e di manioca, di frutto della passione e di jack fruit, di papaia e di albero del pane, di pepe e di avocado sono diffusissime ovunque, circondano le case dei villaggi, quasi tutte di legno e costruite su palafitte, per tenere lontani gli animali e l’umidità, e rappresentano anche una fonte di alimentazione spontanea e facilmente disponibile.  A proposito di cibo, nelle tavole dei centri turistici, ma credo anche in quelle degli abitanti locali, dominano la frutta e il pesce, cucinato in genere alla griglia ed anche molto buono, come abbiamo potuto constatare e sperimentare nel laboratorio di cucina dello chef João Carlos Silva, famoso ben oltre i confini dell’isola, nella sua Roça S.João, dove siamo stati ospiti in una vecchia abitazione padronale portoghese, al centro di una tenuta agricola importante ed ancora attiva. Abbiamo preparato insieme al suo staff di cucina, studenti in formazione nella sua scuola alberghiera, e poi consumato in allegria e fratellanza un pranzo di classe, divertendoci anche con le nostre bandane rosse, di berlusconiana memoria, che accentuavano i tratti invecchiati dei nostri visi, le orecchi ingrandite e i nasi prominenti.  Appassionato d’arte il cuoco ha allestito anche un interessante museo di arte moderna, pieno di opere originali, che rendono la sua roça un angolo di relax ed anche di notevole spessore culturale. Tornando a parlare della gente dell’isola, ciò che ha colpito maggiormente tutti noi sono stati i bambini, che abbiamo incontrato dappertutto: nei cortili, nelle aule, in gita scolastica, lungo le strade, affacciati alle porte o ai balconi delle case, e poi le donne, moltissime in attesa, dedite ai bucati lungo i torrenti, al trasporto di panni e secchi d’acqua sulla testa, ad accudire i figli, ad essicare e preparare il pesce, a lavorare la frutta ecc. Gli uomini, invece, sono dediti soprattutto alla pesca e spesso, armati di macete, li abbiamo incontrati lungo le strade o li abbiamo visti sbucare dalla fitta foresta con la legna o la frutta raccolta. Molti, come spesso accade in questi paesi del terzo mondo, scarsi di occasioni lavorative, li abbiamo visti seduti, in ozio almeno apparente, lungo le strade o nelle piazze dei villaggi, a far trascorrere le ore, in luoghi dove la dimensione del tempo è diversa da quella a cui siamo abituati noi europei. Probabilmente una volta, anche se in un clima di sfruttamento e dipendenza, era diverso e sembrano testimoniarlo, con un interessante profilo storico, architettonico ed economico, le numerose roça, vecchie aziende coloniali, dove si raccoglieva e lavorava il cacao ed il caffè. Erano insediamenti operativi e sociali, dove oltre alle costruzioni aziendali c’erano le case dei lavoranti, scuole, ospedali, spazi ricreativi ecc. che impegnavano le giornate dei santomensi. Oggi sono invecchiate ed in parte abbandonate oppure ospitano qualche cooperativa e delle comunità che sopravvivono in condizioni simili allo stato stesso di quei vecchi edifici coloniali. Voglio terminare questa mia fatica letteraria con due accenni, ai posti più belli e suggestivi:

  • Praia Inhame, il resort immerso nel verde, con dei bungalow confortevoli, di legno, in perfetto stile saotomense, alle spalle di una splendida spiaggia, forse la più affascinante della costa orientale, dove capita anche di vedere le tartarughe. E’ stato un giorno di relax, di distensione totale, tra le palme protese verso l’oceano, le orme dei granchi sulla sabbia dorata, un sole di vivida luce, che rendevasempre più evidenti ed esaltava i turchesi del mare, i verdi variegati delle piante, i neri intensi delle rocce basaltiche. Un ultimo paradiso, che veniva proprio alla conclusione della nostra permanenza nell’isola.
  • Mucumbli, il luogo fatato dove abbiamo trascorso i primi due giorni, un eden verde ulteriormente valorizzato dalla squisita presenza di Tiziano, di sua moglie e della figlia adottiva, che ci hanno trattato benissimo, facendoci assaggiare il Calulu ed il Molho no Fogo, due piatti tipici locali, e per la suggestione delle terrazze del ristorante e dei bungalow, affacciate sul sottostante oceano, da cui, negli squarci tra gli alti alberi della rigogliosa foresta, si intravvedevano sfilare lente e fiduciose le semplici barche dei pescatori isolani, quasi smarrite nella immensa e liquida superficie grigiastra. Qui, assaporando solitario un insolito tramonto, mi sono sentito ispirato ed ho composto questi pochi versi, che Tiziano ha inserito nel suo libro degli ospiti.

Mucumbli (São Tomé)
Sordo impatto
di ritmiche, schiumose onde
su neri sassi
di vulcanico basalto
accompagna un rapido tramonto
di quiete equatoriale.
Ascolto solitario
dal terrazzo proteso
sulla selvaggia riva
sopra i molteplici verdi
di una panica foresta
i miei silenzi
e il canto stridulo del selele 
che trasporta i miei pensieri
nel lontano orizzonte
dove il cinereo cielo
si perde nel grigiore esteso
del vasto oceano.
Lievi barche di pescatori
su acque profonde
remano un atteso rientro
con magro bottino
alla essenziale dimora
ed al parco desco
nella umida sera.
Non voglio andare
seguire il correre di altre vite
voglio un soffice oblio
in cui affogare
i ricordi di un amore perduto
smarrirmi in un pianeta di luce
dove non volino parole vuote 
e gli uomini non siano involucri
di misere ipocrisie. 
Vorrei assopirmi 
in questo angolo di pace
di fogliami rigogliosi e perenni
tra fiori di velluto colorato
e frutti dai nuovi sapori
dove il tempo si è fermato
incerto tra  il nostro futuro
e il restauro di un mondo altro.