Pietro Cadorin (1898-1967), detto “Peaòche”, abitava in Via La Violetta. Aveva delle pecore, che portava a pascolare sulle colline, e spesso metteva a disposizione il suo montone per inseminare le pecore altrui. Teneva in casa anche galline ed oche, alle quali evidentemente deve il soprannome che lo caratterizzava. Era un tipo sanguigno ed orgoglioso, intelligente ed intraprendente, che teneva molto alla sua dignità.
Si racconta che, quando lavorava presso il pastificio di Ado Stocco (detto Barbe Stocco), al padrone, che probabilmente era un tipo diffidente e sospettoso e si era permesso di perquisirgli le tasche, abbia urlato: “Cossa fatu, porco zio! tu me palpa e scarsee?, che sia a prima e ultima volta, se no tire fora a rivolta (rivoltella o pistola)”.
L’esclamazione “porco zio” era frequente nel suo parlare, caratterizzato da uno strano ed artificioso accento venezianeggiante, che ostentava come segno delle sue lontane e fantomatiche origini di nobile patrizio della Serenissima repubblica veneta, di “sangue bleu”, come diceva lui.
Neanche fosse un leghista ante litteram!
In realtà doveva avere ben altre impostazioni ideali e filosofiche, se è vero che Ilario Fasan, scomparso di recente, mi ha raccontato di aver disegnato, in occasione di una tornata elettorale, falce e martello su entrambi i fianchi della mussa Gina, che tirava il carretto dalle grandi ruote, tipo i carretti siciliani, con il quale Peaòche trasportava merci per conto terzi. Andava a Treviso a prendere i prodotti di monopolio: sale, zucchero, ecc. per Valerio Fenato, padre di Mario e Laura, che aveva un negozio di alimentari vicino a casa sua, o faceva analoghi servizi di trasporto per altri, per lo stesso Barbe Stocco o per il fabbro Bruno Rossi, dove lavorava Ilario Fasan.
Sulla sua mussa, che guidava con due soli e cifrati comandi: sarùc (ferma) e àri (avanti), ho sentito raccontare diversi aneddoti simpatici. Una volta aveva trasportato col suo carretto dei tubi per Bruno Rossi, che doveva aggiustare la fontana ancora oggi esistente in Via Vallon, nella strada tra l’agriturismo Col delle Rane e casa Brombal. Ilario Fasan ed altri operai del Rossi, mentre lui era a bere un “goto” dai Brombal, gli nascosero la mussa in mezzo al “suturco”. Tornato dopo la breve sosta, i burloni si divertirono a sentirlo urlare: “Porco zio! me e scampà a mussa” e a chiamarla disperato.
Erano stupidaggini, ma una volta ci si divertiva anche con queste bravate, quasi sempre innocenti e senza malizia, che finivano poi per essere raccontate nei filò o nelle osterie.
Una volta, verso Treviso, ad un passaggio a livello particolarmente obliquo rispetto alla sede stradale, le ruote del suo carro si incastrarono dentro le rotaie. Mentre cercava di rimediare, le sbarre si chiusero, con il rischio imminente che carro e mussa venissero travolti.
Pietro Cadorin non si perse d’animo e visto nei pressi un negozio di quelli di allora, dove si trovava di tutto, comperò alcuni petardi, che corse a collocare sui binari. Poco dopo il treno in arrivo li fece scoppiare ed immediatamente frenò, cigolando e sferragliando.
Così mussa e carro furono salvi. La sua mussa doveva essere speciale, selvatica e irrequieta, ed era solita sdraiarsi per terra e non muoversi più se incontrava o veniva condotta vicino a gruppi di persone estranee, oppure si scatenava se veniva montata in maniera anomala.
Un episodio del genere capitò a Gino Gallina, che gliel’aveva chiesta in prestito.
Dopo averla vista rifiutarsi di riprendere il cammino, per ben due volte, dopo altrettante soste in osterie sulla strada per Maser, al terzo rifiuto, spazientito, prese a bastonarla.
La mussa partì in picchiata, col cugino di Gino sul carretto e si fermò solo sui campi di Villa Barbaro, rincorsa dal fattore inferocito, perché stava rovinando i raccolti.
Un altro episodio simile toccò a Mario De Bortoli che, avendola montata di brutto, senza gli abituali accorgimenti del padrone, se la vide partire in corsa sfrenata e pericolosa, fino a fermarsi, per fortuna, davanti ai cespugli di rovi che costeggiavano la“Camuea”, canale che corre ad ovest del territorio caeranese.
Peaòche era famoso anche per una filastrocca che amava ripetere trastullandosi con la lettera iniziale del suo nome di battesimo.
Metteva in fila una lunga serie di parole, procedendo per associazioni, per assonanze o a caso: “Pietro, Paolo, Panza, Pittore, Poco, Pagato, Pazzo, Puttaniere, Porco… Passaporto, Parte, Per, Parigi…” creando una curiosa tiritera che ognuno poteva continuare a piacimento.
Pietro era stato sfortunato nella vita: aveva il braccio sinistro deforme, corto, di origine focomelica, una malattia che causava malformazioni agli arti e che negli anni ’60 fu associata all’uso del talidomide.
Inoltre, quando lavorava in pastificio, aveva rischiato di perdere anche l’altro braccio, sotto una pressa. I medici volevano amputarglielo, ma lui si oppose. Ebbe ragione perché riuscirono a salvarglielo, dopo un lungo periodo di cure e di ricovero in ospedale.
Io l’ho conosciuto e ricordo di avere avuto con lui uno strano, breve colloquio, che mi fece una certa impressione (ero molto giovane) per una sua frase che mi è sempre rimasta dentro: “Io non credo in Dio, credo nel Supremo”, mi disse.
Una simile affermazione, in bocca ad un pastore di pecore, avvolto nel suo nero tabarro, mi ha fatto pensare molto allora, quando stavo cercando di districarmi al meglio tra fede e ragione, ed oggi mi piace immaginare che “Peaòche” fosse una persona particolare, a suo modo colta, con qualche lettura o informazione sul deismo, una teologia nata in Inghilterra e poi diffusasi soprattutto in Francia.
Il deismo nega ogni forma di rivelazione divina e crede in una divinità razionale che mette in secondo piano il culto e si concentra sull’interpretazione filosofica di Dio. Ma forse lui non ne sapeva niente. Non so cosa intendesse dire esattamente, o non ricordo bene, ma penso volesse dirmi che lui non credeva in una divinità personalizzata, ma in un’entità superiore, astratta, quasi laica. Non so se ne parlasse anche con gli amici di osteria, credo di no, ma io voglio ricordarlo come un tipo originale, anche lui in scarsa sintonia con la società molto conformista di quei tempi.
Nella foto, Pietro Cadorin, Maria Carelle e Lucina Zanchetta davanti alla vecchia osteria Minora (da Bambin)
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