Si avvicinano Natale, Capodanno e Befana e in questa nostalgica riproposizione di feste e tradizioni si rinnova il rito dei falò.
Ricordo che una volta, in occasione dell’Epifania, tutto il borgo di San Marco, come altri borghi, si raccoglieva attorno alla “bubarata”, una delle più grandi del paese, che veniva preparata nelle settimane precedenti andando a raccogliere nei campi limitrofi rovi, ramaglie, arbusti e quant’altro potesse bruciare. Noi bambini restavamo incantati dalle volute vorticose delle faville che salivano in alto e poi, i più coraggiosi, saltavamo impavidi le braci rossastre che si stavano lentamente spegnendo.
Nelle campagne i contadini traevano auspici per i raccolti futuri dalla direzione del fumo e col sacrificio della vecchia di paglia e stracci, issata in cima al falò, intendevano archiviare l’annata appena trascorsa, generalmente povera di soddisfazioni, come tutte le altre, e sperare in tempi migliori.
Per fortuna questa tradizione sopravvive ancora oggi, in qualche parte del nostro paese, anche se non ha più il fascino antico e se il notevole inquinamento atmosferico, che opprime le nostre terre, obbliga i comuni a disciplinarla ed a penalizzarla fortemente.
Le ultime volte che l’ho goduta ed assaporata, purtroppo solo per alcuni anni, è stato nel parco del Peep 1, dove il rito si ripeteva ogni 5 gennaio, grazie ad Esterino Borlina e ad altri amici del quartiere, a sua moglie, che preparava la pinza ed il vin brulè, ed ai Barbapedana (Renato Tapino, Francesco Bernardi…) che suonavano la cornamusa e cantavano “I tre lorienti”.
L’altro giorno ho sentito dire che i principali fattori di inquinamento atmosferico della pianura padana sono nell’ordine: il riscaldamento, il traffico e la produzione industriale. Fa una certa tristezza, allora, che i comuni se la prendano con i falò, arrivando a contingentarli o addirittura a vietarli.