«Sfidiamo il Pd», leggo sui giornali. Sarebbe logico che a lanciare questo guanto fosse un avversario – Salvini, Berlusconi o Di Maio, che legittimamente vogliono abbattere il governo di centrosinistra e legittimamente cercano di indebolirlo e prenderne il posto alla guida del Paese.
Ma a proclamare quella baldanzosa sfida è Giuliano Pisapia, già valente sindaco di Milano vittorioso contro la destra e che ora, senza accorgersene e senza volerlo, oggettivamente aiuta la destra ad andare al governo, cercando di sgretolare l’unica forza politica che può impedirlo ovvero il Pd.
Non è certo il solo in questa febbre di autogol. Se chi parla così si fosse convertito al verbo della destra, non ci sarebbe nulla da ridire; è legittimo cambiare idea. Ma non è il caso di Pisapia né degli altri che, come lui, illudendosi di lavorare per la vittoria di una sinistra non sembrano consapevoli di renderla sempre più improbabile.
Anche nei partiti di destra ci sono vistosi contrasti, inimicizie, diversità di opinioni e di progetti su come governare l’Italia, ma il fronte resta sostanzialmente solidale, organicamente coerente con la sua battaglia. La destra vuole battere la sinistra ossia in primo luogo l’unica sua formazione politica che possa governare. Simpatie, antipatie, aspre differenze, tensioni al suo interno non minano la sua forza d’urto.
A sinistra i litigi, i risentimenti, le critiche e autocritiche, i generosi ma inconsistenti vagheggiamenti di una sinistra migliore e più avanzata provocano scissioni, contraddizioni che sbriciolano giorno per giorno l’unico possibile partito di governo della sinistra. Un’adolescenziale smania di discutere sfilaccia la lotta concreta. Sagunto cade e a Roma si discute, in una libido loquendi che è stata quasi sempre perdente.
Nessuno sogna un partito totalitario retto da un pugno di ferro che reprime le discussioni e le critiche, ma un’ossatura friabile al primo diverbio ti impedisce di vincere e di governare. In una forza politica vigorosa i contrasti permangono e sono pure fecondi, ma si compongono nell’unità di una comune battaglia per fini che sono sentiti superiori alle diversità di opinioni e di tendenze.
Chi, come me, vorrebbe un governo di centrosinistra e uno stile di governo come quello di Gentiloni è allibito dinanzi a questo disfattismo oggettivo. Le varie ragioni dei gruppi centrifughi possono essere in molti casi valide, ma la dispersione è obiettivamente alleata dell’avversario.
Ma a proclamare quella baldanzosa sfida è Giuliano Pisapia, già valente sindaco di Milano vittorioso contro la destra e che ora, senza accorgersene e senza volerlo, oggettivamente aiuta la destra ad andare al governo, cercando di sgretolare l’unica forza politica che può impedirlo ovvero il Pd.
Non è certo il solo in questa febbre di autogol. Se chi parla così si fosse convertito al verbo della destra, non ci sarebbe nulla da ridire; è legittimo cambiare idea. Ma non è il caso di Pisapia né degli altri che, come lui, illudendosi di lavorare per la vittoria di una sinistra non sembrano consapevoli di renderla sempre più improbabile.
Anche nei partiti di destra ci sono vistosi contrasti, inimicizie, diversità di opinioni e di progetti su come governare l’Italia, ma il fronte resta sostanzialmente solidale, organicamente coerente con la sua battaglia. La destra vuole battere la sinistra ossia in primo luogo l’unica sua formazione politica che possa governare. Simpatie, antipatie, aspre differenze, tensioni al suo interno non minano la sua forza d’urto.
A sinistra i litigi, i risentimenti, le critiche e autocritiche, i generosi ma inconsistenti vagheggiamenti di una sinistra migliore e più avanzata provocano scissioni, contraddizioni che sbriciolano giorno per giorno l’unico possibile partito di governo della sinistra. Un’adolescenziale smania di discutere sfilaccia la lotta concreta. Sagunto cade e a Roma si discute, in una libido loquendi che è stata quasi sempre perdente.
Nessuno sogna un partito totalitario retto da un pugno di ferro che reprime le discussioni e le critiche, ma un’ossatura friabile al primo diverbio ti impedisce di vincere e di governare. In una forza politica vigorosa i contrasti permangono e sono pure fecondi, ma si compongono nell’unità di una comune battaglia per fini che sono sentiti superiori alle diversità di opinioni e di tendenze.
Chi, come me, vorrebbe un governo di centrosinistra e uno stile di governo come quello di Gentiloni è allibito dinanzi a questo disfattismo oggettivo. Le varie ragioni dei gruppi centrifughi possono essere in molti casi valide, ma la dispersione è obiettivamente alleata dell’avversario.
In tanti casi può esser necessario votare non, come ovviamente ognuno di noi vorrebbe, per un partito ideale, ma per il male minore. Oltre un certo limite, la rabbia anche soggettivamente nobile diventa autolesionismo, come nella vecchia e abusata barzelletta del marito che si evira per fare dispetto alla moglie.
Claudio Magris (Corriere della Sera del 18.09.2017)