Mio zio Roldo Marconato è morto recentemente, a 93 anni. Voglio ricordarlo come uno dei tanti IMI (Internati Militari Italiani) che, dopo l’8 settembre, furono caricati sui carri bestiame e trasportati nei campi di concentramento in Germania e in Polonia.
Non subirono il terribile destino degli ebrei, ma furono costretti a lavorare nelle fabbriche e nei cantieri delle citta polacche e tedesche, tra stenti e sofferenze che lasciarono segni indelebili nella loro vita successiva, dopo il ritorno in patria.
Chiamato in servizio a 19 anni, mentre studiava al Pio X di Treviso, fu fatto prigioniero dai tedeschi dopo l’armistizio e deportato in Germania, anzi in Polonia, a Kustrin, dove gli inviati di Mussolini hanno subito cercato di convincerlo ad aderire alla Repubblica Sociale Italiana e a ritornare in patria. Ma lui fu tra i moltissimi che si rifiutarono: aderirono solo 7 internati su 500.
Costretto a lavori forzati e duri, arrivò a pesare 37 chili, tanto che dopo una visita medica, gli fu concessa una doppia razione del rancio.
Trasferito poi a Berlino visse il periodo dei bombardamenti della città, a sgomberare macerie, a costruire barricate in vista dell’imminente arrivo dei russi, che giunsero a liberare il suo campo il 23 aprile del 1945.
Costretto a peregrinare per la Germania e la Polonia, sotto la sorveglianza dei soldati russi e polacchi, cominciò il viaggio di ritorno solo ai primi di agosto e dopo un breve periodo di quarantena a Pescantina (VR) arrivò a Caerano il 14 ottobre del 1945.
Pesava 39 chili ed era talmente fiaccato anche moralmente da non essere più in grado di riprendere gli studi abbandonati due anni prima, adattandosi a lavorare nel negozio di tessuti e mercerie della famiglia.
Durante questa sua esperienza, lui che veniva da una famiglia benestante, conobbe fame ed umiliazioni, solitudine, nostalgia dei familiari lontani, degli amici e conoscenti, come scrive in una delle sue molte lettere che ha conservato e che costituiscono, insieme al suo prezioso diario, un documento di storia sofferta e vissuta, vera.
Era soprattutto amareggiato per aver dovuto abbandonare gli studi, per la gioventù interrotta e forse perduta per sempre, come scrive in un’altra sua lettera:
“Io non sarò più felice, mi hanno rovinato la carriera mentre già mi sorrideva la vita, venni così stroncato nei più begli anni, gli anni della gioventù”
Per anni non ne ha mai voluto parlare, nel tentativo di rimuovere quella dolorosa “avventura”, che nascondeva perfettamente dietro alla sua allegria ed alla sua voglia di reagire, di divertirsi, di riconquistare la vita.
Solo qualche anno fa ha fatto breccia in lui il bisogno di raccontare, di lasciare testimonianza, ed il suo diario è diventato un libro, intitolato: “Anch’io portavo il numero al collo 33496”.
Credo che da quelle sue pagine venga fuori una memoria dignitosa, di un uomo semplice e buono, che forse proprio l’esperienza vissuta ha reso sempre disponibile a attento alle sofferenze ed ai bisogni degli altri.
Questa almeno è l’immagine di cui godeva a Caerano.
Dopo il ritorno, per alcuni anni, gli ex internati, non hanno avuto grande considerazione in Italia, ma poi, grazie all’A.N.E.I., la loro associazione, non sono mancati i riconoscimenti, così anche Roldo ha ricevuto la Croce al merito di guerra (1966), il distintivo d’onore di Volontario della Libertà (1977), il diploma d’onore di combattente per la libertà d’Italia (1984) e da ultimo, il 27 gennaio 2009, giorno della memoria, la medaglia d’onore, che gli è stata consegnata al Palazzo dei Trecento a Treviso, dal prefetto.