Opinioni Caeranesi

Mauro Marconato

Dalla memoria al ricordo

Se sulla memoria della shoah (27 gennaio) non ci sono mai state polemiche, se non da parte di qualche esaltato negazionista, sul ricordo delle foibe (10 febbraio) ci sono stati prima assurdi e sbagliati tentativi di oscuramento e minimizzazione dei fatti e poi una giusta “riscoperta” di quel dramma storico, subito ed inevitabilmente strumentalizzata in funzione anticomunista, a comunismo ormai tramontato, soprattutto dai nostalgici del fascismo, e non solo.

Vediamo allora di capire come sono andate veramente le cose, per cercare di “celebrare” il 10 febbraio con spirito di verità e non di bassa propaganda politica.

Dal 1944, e soprattutto dopo il trattato di pace del febbraio 1947, avvenne l’esodo di circa 250 mila giuliano-dalmati dall’Istria e dalla Dalmazia, anche a causa dell’eliminazione di migliaia di persone, molte delle quali gettate nelle foibe. 

Ad essere uccisi barbaramente dai partigiani comunisti di Tito furono ex fascisti e repubblichini, funzionari statali, militari e poliziotti italiani, ma anche nazionalisti croati e sloveni e perfino, paradossalmente, partigiani comunisti italiani in contrasto con quelli titini. I profughi istriani e dalmati non furono trattati molto bene nell’Italia del dopoguerra e le forze politiche di allora, in particolare PCI e DC, fecero poco o nulla per salvaguardare i loro diritti, cercando di non inimicarsi il maresciallo Tito che si era smarcato da Mosca e che rivendicava una sua autonomia, utile all’occidente. Prevalse la ragion di stato.

Ma torniamo un po’ indietro con la storia.

Nel 1918, dopo la guerra e la dissoluzione dell’Impero austroungarico, i territori in questione furono spartiti tra il Regno di Jugoslavia e il Regno d’Italia, con l’impegno a rispettare i diritti delle minoranze italiane e slave presenti in entrambe le parti. 

Nella cosiddetta Venezia Giulia, annessa al Regno d’Italia, nel 1910 erano presenti (dati del censimento austrico) 480.000 slavi contro 403.000 italiani e poi, nel 1931, in pieno periodo fascista, 443.000 slavi contro 526.000 italiani. E’ evidente che gli slavi erano qualcosa di più di una minoranza.

Ma quale fu la politica dell’Italia e del fascismo nei confronti di questi slavi?

Nel 1920 avviene l’occupazione della città di Fiume e Gabriele D’Annunzio proclama: ”Nella terra di specie latina, nella terra smossa dal vomere latino, l’altra stirpe (cioè quella slava) sarà foggiata o prima o poi dallo spirito creatore della latinità…”

In che modo avvenne questo tentativo di “latinizzazione” forzata degli slavi?

A partire dal 1918 e fino al 1924 si ripeterono, ad opera delle autorità o delle squadre fasciste, in queste zone:

  • l’abolizione dell’uso del croato e sloveno nei rapporti ufficiali con la popolazione
  • la chiusura di circoli culturali slavi delle campagne, sospettati di nazionalismo
  • la tassazione al quadruplo delle insegne in sloveno e croato dei locali pubblici
  • la deportazione di intellettuali e preti slavi in Sardegna, tra questi anche il vescovo di Veglia, che si era opposto alla eliminazione dei riti cattolici in liturgia slava e protoslava
  • la ripetuta devastazione o incendio, a Trieste e a Pola, delle case del popolo slave, di loro biblioteche, circoli di cultura, giornali, associazioni operaie di mutuo soccorso, banche di credito, luoghi di ritrovo… addirittura di case e canoniche
  • il sistematico boicottaggio di liste e candidati slavi in occasione di elezioni, arrivando a non fornire i certificati o a cancellare elettori dagli elenchi elettorali

Dal 1926 si osteggia l’uso della lingua locale sia nei rapporti privati che nei canti popolari, nelle prediche in chiesa e perfino nell’uso dei telegrammi e si cacciano dalle scuole molti insegnanti di lingua slovena e croata, che continuano ad essere insegnate solo parzialmente e come lingue straniere, e si eliminano gradualmente tutte le 400 scuole slave esistenti.

Si procede anche ad espropri di terreni.

Nel 1940, con l’ingresso in guerra dell’Italia, la situazione peggiora ulteriormente ed arrivano anche i tedeschi, gli ungheresi ed i bulgari. Inizia ovviamente una lotta di resistenza slava e partigiana, con azioni di guerra e rappresaglie. Per ogni italiano morto vengono uccisi due ostaggi che, dal 1942 al 1943 sommarono a 146, e vengono compiuti saccheggi, arresti, deportazioni ecc.

Furono creati in loco ed in Italia circa una sessantina di campi di concentramento e lavoro, tra cui quello di Monigo, a Treviso, che ospitarono almeno 30.000 persone. A Monigo morirono 187 slavi, tra cui 54 bambini.

Ora è chiaro che la tragedia delle foibe, non certo giustificabile, anche se ha delle “ragioni” storiche, come succede sempre in casi di guerre, oppressioni, occupazioni, rivolte e lotte di liberazione, va ricordata in modo umanissimo e serio e come monito affinchè certi drammi non si ripetano in futuro, ma va ricordata senza le consuete strumentalizzazioni in cui è solita “grugnire” la politica italiana, soprattutto da parte degli eredi dei fascisti di allora e dei loro epigoni, soprattutto se lasciano morire ancora molti disgraziati, peraltro senza colpa alcuna, nelle foibe del Mediterraneo.

(dal libro “Deportati a Treviso. La repressione antislava e il campo di concentramento di Monigo 1942-43 – di F.Scattolin, M.Trinca, A.Manesso – Ed. Istresco)